Da circa una settimana, in occasione della Festa del Cinema, è nelle sale italiane Principessa Mononoke, il capolavoro diretto da Hayao Miyazaki, uscito per la prima volta nel 1997.
Il film, sicuramente tra quelli più amati del maestro giapponese, è stato riproposto con un nuovo doppiaggio più fedele all’originale e ha riscosso un enorme successo nelle sale.
Per chiudere in bellezza questa settimana dedicata a Principessa Mononoke, vi proponiamo le dichiarazioni di Hayao Miyazaki sul film.
“In questo film ci sono pochi di quei samurai, signori feudali e contadini che di solito appaiono nei film in costume giapponesi. E quelli che ci sono appaiono nei ruoli più marginali. Gli eroi principali di questo film sono i furiosi dei delle foreste della montagna, e quei personaggi che raramente fanno la loro comparsa sul palcoscenico della storia. Tra questi, i membri del popolo dei fabbri Tatara, gli artigiani, i braccianti, i minatori, i carbonai e i conducenti di carri, con i loro cavalli e i loro buoi. Portano armi e hanno quelli che potremmo definire come i sindacati dell’epoca, le loro corporazioni di arti e mestieri.
I terribili dei della foresta, contro i quali si battono, prendono le sembianze di lupi, cinghiali e orsi. Il Grande Spirito della foresta sul quale è incentrata la storia è una creatura immaginaria dal volto umano, il corpo di un animale e grandi corna legnose. Il ragazzo protagonista è un discendente della tribù degli Emishi, che fu sconfitta dai governanti giapponesi Yamato e scomparve in un’epoca remota. La ragazza ha i tratti di una scultura in creta del periodo Jomon, un’era pre-agricola del Giappone, durata fino all’80 d.C. circa.
Gli ambienti principali in cui si svolge la storia sono le impenetrabili foreste degli dei, il cui accesso è vietato agli esseri umani, e le fucine del clan Tatara, che somigliano ad una fortezza. I castelli, le città e i villaggi dediti alla coltivazione del riso, che di norma sono gli ambienti in cui si svolgono le storie in costume giapponesi, qui restano sullo sfondo. Al loro posto abbiamo cercato di ricreare l’atmosfera di un Giappone ancora coperto da fitte foreste, con pochi abitanti e nessun argine, con una natura ancora incontaminata, con montagne lontane e vallate solitarie, ruscelli di acqua limpida, stretti sentieri pietrosi e non battuti e una profusione di uccelli, animali e insetti.
Abbiamo utilizzato questi ambienti per sottrarci alle convenzioni, ai preconcetti e ai pregiudizi relativi ai tradizionali drammi storici e per avere maggior libertà nel delineare i nostri personaggi. Recenti studi di storia, antropologia e archeologia ci dicono che il Giappone ha un passato molto più ricco e vario di come comunemente viene rappresentato. La povertà di immaginazione dei nostri drammi storici è in gran parte dovuta all’influenza esercitata dai cliché presenti nelle trame dei film.
Il Giappone dell’era Muromachi (1392-1573), periodo in cui si svolge la nostra storia, era un mondo in cui il caos e il cambiamento costituivano la norma. Successiva all’era Nambokucho (1336-1392), durante la quale due corti imperiali si erano fatte la guerra per la supremazia nel Paese, l’era Muromachi è stata un’epoca piena di ardimento, di clamoroso banditismo, di nuove forme d’arte e di ribellione contro l’ordine stabilito. E’ stata l’epoca in cui ha cominciato a prendere forma il Giappone di oggi. E’ stata diversa sia dall’era Sengoku (1482-1558), quando eserciti professionisti combattevano in guerre organizzate, sia dall’era Kamakura (1185-1382) quando i potenti samurai si scontravano per il dominio sul territorio.
E’ stata un’era più fluida, in cui non c’erano distinzioni tra contadini e samurai, in cui le donne erano più libere e audaci, come è possibile capire guardando le ‘shokuninzukushie’, immagini dipinte di donne dell’epoca intente a compiere i lavori più diversi. In quel mondo il confine tra la vita e la morte era più netto. La gente viveva, amava, odiava, lavorava e moriva senza le ambiguità di oggi.
In ciò risiede, credo, il significato di fare un film come questo in anni di caos mentre ci accingiamo ad entrare nel XXI° secolo. Con questo film non pensiamo di risolvere problemi globali. Non ci può essere un lieto fine dello scontro tra gli dei della foresta e gli uomini. Ma anche nel bel mezzo di odio e carneficine resta un po’ di quell’amore per cui vale la pena di vivere. Incontri meravigliosi e cose bellissime accadono ancora.
Nel film abbiamo messo in scena l’odio, ma solo per mostrare che ci sono cose più importanti. C’è una maledizione, ma solo perché volevamo mostrare la gioia della salvezza. Cosa ancora più importante, mostriamo come un ragazzo e una ragazza arrivino a comprendersi, e come la ragazza mostri il suo cuore al ragazzo. Alla fine del film la ragazza dice al ragazzo: “Ti amo Ashikata, ma non posso perdonare gli esseri umani”. Il ragazzo sorride e le risponde: “Cerchiamo di convivere in pace”.
Questa scena riassume l’idea di film che volevamo fare.”
Principessa Mononoke sarà nelle sale solo fino a domani. Se non l’avete ancora visto, prenotate subito il vostro biglietto cliccando sul banner sotto.






La delicatezza di questo brano esprime a pieno i sentimenti d’amore provati dall’animo del giovane Ashitaka, ma è poco noto che inizialmente fu realizzata la sola versione strumentale. Il regista Hayao Miyazaki, infatti, non aveva previsto per Principessa Mononoke una versione cantata del brano di Joe Hisaishi, ma un giorno durante un viaggio in macchina aveva ascoltato alla radio la voce di un controtenore e ne era rimasto profondamente colpito. La voce in questione era di Yoshikazu Mera, cantante giapponese che grazie al registro e al timbro tipicamente femminile è riuscito a dare al testo scritto da Hayao Miyazaki un’interpretazione fortemente espressiva.

















Nel il film ci sono tutti i temi cari a Miyazaki: abitanti di antiche località che cercano di mantenere il loro stile di vita; esseri umani che cercano di sopravvivere in luoghi selvaggi; il conflitto tra ambiente e progresso; la bellezza e la maestosità del mondo animale; la possibilità per bene e male di convivere nella stessa persona; e, soprattutto, la potenza esercitata dai miti sulla nostra immaginazione e sulla nostra mente.
Lo scopo di Miyazaki non è mai stato quello di portare sullo schermo una ricostruzione accurata del Giappone medioevale, ma piuttosto di rappresentare l’origine dell’apparentemente insolubile conflitto tra la natura e la moderna civiltà industriale, un conflitto che perdura fino ai nostri giorni. Facendo ciò, Miyazaki evita di mettere in scena personaggi solo malvagi ed eroi senza macchia. Gli uomini che distruggono l’ambiente non sono poi così cattivi, visto che cercano semplicemente di farcela in un mondo che li ha spinti al limite della sopravvivenza. D’altra parte San e gli dei della foresta non hanno solo nobili intenti; la lunga e perdente battaglia contro gli umani ha indurito i loro cuori, escerbato la loro rabbia e li ha profondamente divisi tra loro. Eppure, nell’interazione tra i due gruppi – per quanto difficile da raggiungere – si realizza qualcosa di magico.

